ARTE NEL MONDO: L’arte fenicia dalle origini alla conquista assira, 1.200 a.C. – VII a.C. ca

In questo e nel prossimo articolo dedicati all’arte fenicia, analizzeremo le caratteristiche e lo sviluppo

dell’espressione artistica di questa civiltà, che dal Medio Oriente, è arrivata sino a Occidente, influenzando l’arte della penisola iberica e degli etruschi, fino allo scontro con l’impero romano, che portò alla distruzione di Cartagine nel 146 a.C., alla fine della terza guerra punica.

Innanzitutto, partiamo chiarendo un paio di termini che spesso intercorrono nel riferirsi ai Fenici: con il termine “Fenici” si indica gli abitanti dell’antica Fenicia, cioè grossomodo il territorio dell’attuale Libano. È un popolo che ha origini molto antiche che si stabilì pian piano in questo luogo e che prese ad essere denominato così dai Greci, che li chiamavano “Phoinikes”, termine che deriva dalla parola greca per indicare la porpora, colorante di cui fecero grande uso per tingere i tessuti. I Fenici, invece, sin dall’inizio invece, si definivano Gibliti, Sidonii, Tiri, nomi che derivano dalle città abitate lungo la costa libanese.

L’altro termine per definirli è “Punici”, che indica sempre i Fenici, ma coloro che sono partiti per l’Occidente e hanno fondato colonie e addirittura un impero di città commerciali, come nel caso di Cartagine (nell’attuale Tunisia, la città di Annibale), che ne divenne la capitale.

Placca in avorio raffigurante una sfinge alata, Iraq, X sec.

Nonostante le difficoltà di stabilire con certezza l’identità di questa civiltà, la loro arte assunse una propria autonomia in epoca molto antica, a partire dal 1.200 a.C., periodo in cui emergono definitivamente i suoi aspetti caratterizzanti. L’arte fenicia sin dal principio si ispira molto all’arte egizia, da cui prende molti modelli iconografici, rielaborati successivamente da artisti e artigiani locali che le fanno perdere il simbolismo originale per assumere solamente un aspetto ornamentale. Queste caratteristiche emergono già nella produzione artistica dal II millennio a.C. come testimoniano reperti trovati a Biblo, la più antica città fenicia, tra i quali un sarcofago in pietra, detto “Sarcofago di Ahiram”. È un oggetto di grande importanza, in quanto reca la più antica iscrizione in alfabeto fenicio mai ritrovata, incisa sul bordo del coperchio (i Fenici sono considerati gli inventori dell’alfabeto fonetico, anche se nato in precedenza, son ritenuti coloro che lo hanno trasmesso da Oriente a Occidente; l’alfabeto greco nasce proprio dall’acquisizione di quello fenicio con l’aggiunta delle vocali, in quanto quest’ultimo essendo una lingua semitica come l’ebraico, il siriaco o l’aramaico, presenta solo consonanti). L’iscrizione riporta la dedica in prima persona di Ittobaal, figlio di Ahiram, datata intorno al X secolo e questo comporta una grande difficoltà nello stabilire il periodo corretto dell’opera. Sono state date diverse ipotesi, come per esempio alcuni elementi derivanti dall’arte siro-palestinese del XIII secolo, unite a modelli egizi ed ittiti, come lo sono gli altri oggetti ritrovati nella tomba. L’iscrizione invece, fa pensare ad un suo ipotetico riutilizzo, cioè che sia di origine più antica e poi ripreso nel X secolo quando venne scolpito per il sovrano.

Il sarcofago è stato ritrovato in una tomba ipogeica (sotterranea) della città di Biblo e si presenta a forma di parallelepipedo sorretto da due leoni accovacciati, con il coperchio decorato da due fiere dalle teste sporgenti. I lati sono decorati con bassorilievi, la cui scena principale rappresenta l’offerta al sovrano defunto, probabilmente Ahiram, che si svolge come un banchetto funebre che vede il re seduto su una specie di trono di fronte ad un tavolino, sul quale vengono poste le offerte dalle persone in processione. Il rilievo continua nel lato opposto, realizzato però con minor cura dei dettagli. La parte più importante riguarda proprio il sovrano di Biblo seduto su un trono di sfingi alate, tipologia che prelude ai successivi troni costruiti nei templi e definiti “troni di Astarte”. Il re tiene in mano un fiore di loto appassito, con la corolla abbassata, simbolo di morte e con l’altra benedice gli offerenti che gli rendono omaggio. La parte superiore del rilievo presenta una striscia decorata con fiori di loto chiusi e aperti, sempre rivolti verso il basso, chiara connotazione funeraria e allusione alla morte, derivanti dall’iconografia egizia. Nei lati corti troviamo le prefiche o lamentatrici, nell’atto di strapparsi i capelli e lacerarsi il petto nudo in segno di lutto e disperazione per la morte del sovrano. A chiudere il sarcofago vi è il coperchio dove sono rappresentati due personaggi in piedi al centro, che recano in mano un fiore appassito e uno ancora fresco, a indicare che una figura è il re defunto mentre l’altra il figlio ancora vivente.

I Fenici fra IX e VIII secolo a.C. divennero maestri di un particolare artigianato artistico, la lavorazione dell’avorio, grazie alle sempre più frequenti committenze aristocratiche dei regni e delle corti orientali. Gli oggetti eburnei divennero una delle loro principali attività, in quanto essendo facili da trasportare, potevano raggiungere senza problemi anche luoghi remoti. L’avorio veniva lavorato a tutto tondo, a intaglio, col traforo, a bassorilievo o a incisione e fino al VI secolo domina i mercati del commercio di questo materiale. Venivano richiesti, per esempio, dai sovrani assiri o israeliti per abbellire le proprie regge, in quanto erano oggetti che insieme ai manufatti metallici, divennero degli status symbol. Gli artigiani fenici, da parte loro, rielaborarono soggetti egiziani in immagini che divennero veicolo di regalità e che celebrassero lo stile di vita aristocratico.

Placchetta eburnea di leonessa che azzanna un etiope, IX-VIII sec a.C., Baghdad, Iraq Museum

Gli avori fenici erano prodotti seguendo uno stile iconografico di ispirazione egizia, con soggetti come le sfingi passanti, la vacca che allatta, la donna alla finestra e le palmette, realizzati con lo stile locale che prevedeva un grande uso della linea e un equilibrio fra pieni e vuoti, anche se c’era la tendenza dell’horror vacui, la “paura del vuoto”, che portava a riempire gli spazi vuoti con decorazioni. Gli oggetti erano caratterizzati dalla presenza di linee morbide e sinuose, armonia del tutto, assenza di volume e dalla policromia, per l’utilizzo della tecnica dello smalto cloisonné, che prevede l’applicazione di pasta vitrea colorata, intarsi di pietre dure o inserimento di sottili lamine d’oro.

Molto comuni furono gli oggetti che recavano l’immagine della vacca che allatta il vitello, sempre di derivazione egizia, che di solito era realizzata con la tecnica a giorno, con i soggetti che emergono dallo sfondo quasi piatto. Altro esempio con la tecnica dell’intaglio, venivano realizzate placchette raffiguranti la donna affacciata alla finestra, un volto femminile su una balaustra racchiuso da cornici multiple e probabilmente connessa al culto della dea Astarte, una delle più importanti divinità del pantheon fenicio.

Una delle più grandi testimonianze di questo artigianato è la placchetta con leonessa che azzanna un etiope, conservata oggi al Museo di Baghdad. L’oggetto raffigura una leonessa che azzanna un uomo al collo, su uno sfondo riccamente decorato da gigli azzurri e boccioli rossi, realizzati con la tecnica cloisonné impiegando pietre dure come il lapislazzulo e la corniola, mentre i riccioli e il gonnellino sono ricoperti da un sottile strato di foglia d’oro, che impreziosisce la creazione. La scena proviene dall’iconografia egizia, dove il leone era simbolo di regalità, rappresentato mentre calpesta con le zampe una figura umana, che richiama il trionfo del faraone sui nemici sconfitti. Questo tema figurativo viene ripreso in medio oriente in scene di caccia dove l’uomo uccide la fiera e anche qui rimanda al trionfo del re sul nemico, sull’ordine che sconfigge il caos e sulla giustizia che addomestica la natura selvaggia e la violenza. Qui, invece, viene rappresentato il contrario ed è interessante come abbia avuto successo nonostante il tema “ribaltato”: la leonessa azzanna l’uomo nel momento in cui quest’ultimo non combatte più, perché soccombe tra le zanne dell’animale in un atteggiamento di abbandono privo di pathos.

I Fenici furono anche degli abilissimi lavoratori del bronzo, i cui oggetti pregiati erano richieste in tutto il Vicino Oriente, tant’è che in un passo della Bibbia è citato un certo Hiram, il quale ricevette il compito da re Salomone di decorare con i suoi raffinati bronzi il tempio di Gerusalemme. Gli oggetti arrivati sino a noi

provengono dall’Assiria, dalla Grecia, da Cipro e dall’Italia e sono definiti dagli esperti bronzi siro-fenici, per la fusione di elementi del repertorio fenicio di ispirazione egizia ed elementi del mondo siriaco e successivamente assiro. Tutti questi manufatti sono coppe o patere e sono prodotte martellando una lamina di bronzo, in rari casi d’oro o d’argento, fino a ottenere la forma voluta e decorate con figure a sbalzo e a cesellatura. La decorazione recava motivi istoriati, a fasce concentriche con soggetti floreali, geometrici o del mondo animale, reale o fantastico e talvolta figure umane. Le coppe più antiche presentano al centro una stella o rosetta, seguita da una fascia con figure animali e in quella più esterna da una narrazione mitologica o legata al culto, mentre negli altri manufatti, l’ultima fascia presenta delle decorazioni di ispirazione egizia, che davano al prodotto un aspetto più ricco e aristocratico molto apprezzato.

Coppa bronzea da Nimrud, VIII secolo a.C., Londra, British Museum

Un esempio di queste bellissime coppe è la coppa di Nimrud che oggi si trova al British Museum di Londra. Chiamata così perché ritrovata insieme ad altre dalla decorazione simile nell’antica capitale assira, reca al centro una rosetta circondata da cinque fasce concentriche di piccole palme. La fascia esterna che occupa il resto della superficie della patera, presenta un motivo ripetuto quattro volte che dà simmetria all’intero oggetto. Sono rappresentati due grifoni, uno di fronte all’atro, con corpo di leone e testa di falco, mentre con una zampa schiacciano una figura inginocchiata a terra. I due animali portano sul capo la corona unita di Alto e Basso Egitto, ridotta solamente ad elemento ornamentale, che dava quell’idea di regalità molto richiesta da aristocratici e sovrani. La scena araldica è delimitata da naiskoi (tempietti votivi con colonne, architrave e timpano che ospitavano una divinità o figura da venerare; in Egitto chiamate così anche delle piccole stele votive con simboli religiosi o figure umane) di ispirazione egizia, sorretti da colonnine, separati dagli altri blocchi da steli di papiro su cui sono appoggiati degli scarabei. La coppa, a causa della simmetria della decorazione, non ha un andamento fluido e armonico, ma molto statico, in uno stile che caratterizza questa prima produzione e che non sarà presente nelle successive patere esportate nei secoli successivi in Occidente.

Per concludere lo sviluppo dell’arte fenicia di questo periodo, parliamo della ceramica, che proviene dalla lavorazione iniziata nel II millennio a.C. e che continua anche quando l’arte acquista la sua autonomia dopo il 1.200 a.C., nella produzione di uso comune che si protrarrà fino al X secolo. Dal 1.200, a seguito del blocco delle importazioni dagli altri paesi, inizia una fabbricazione autoctona lungo la costa di coppette profonde chiamate skyphoi, decorate con bande ondulate dipinte. Segue, a partire dall’XI secolo, lo sviluppo di una ceramica bicroma, dipinta in rosso e in nero con motivi geometrici, linee, ampie strisce e cerchi concentrici.

L’evoluzione di una ceramica tipica fenicia si ha dal X secolo, quando appare un nuovo tipo di produzione che diventerà la tipologia caratterizzante di questa civiltà, chiamata red slip o ceramica ad ingobbio rosso, detta così per lo strato esterno di argilla rosso scuro che veniva applicato ai vasi. Questo tipo di rivestimento è stato utilizzato per imitare la lucentezza dei manufatti in metallo, a cui si rifacevano molti modelli di vasi e brocche prodotti. Inoltre, questa tecnica fu importante perché velocizzava la produzione e riuscì a trasformarla in una seriale, con il conseguente calo dei prezzi e una maggiore vendita nei mercati.

di Deborah Scarpato

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