Di un popolo come quello greco, del quale conosciamo forse più che di qualsiasi altro dell’antichità, ogni aspetto della storia, della cultura e della vita, non ci è invece rimasta quasi alcuna testionianza d’arte pittorica.
Grazie alle fonti storiche, sia quelle del tempo, sia successivamente quelle romane, conosciamo però il nome di molti pittori famosi quali, ad esempio, Polignòto di Taso, attivo fra il 480 e 450 a.C., Zèusi di Eraclèa e Parràsio di Efeso, Nicia di Atene e Apèlle di Colofòne. Di questi artisti ci sono pervenute, a volte, anche descrizioni di alcune opere, il che ci testimonia quando essi dovessero essere noti e rinomati.
Nonostante ciò i resti pittorici giunti fino a noi non sono mai degli originali, che erano realizzati ad affresco e su tavola, ma copia, talvolta anche molto tarde, solitamente non di buona qualità esecutiva. Inoltre, tali copie venivano spesso modificate nella composizion, con aggiunte o eliminazione di particolari, anche importanti, ma quel che più conta con l’adozione ditecniche assolutamnte diverse. Di molti enormi affresci, infatti, non resta che un pallido riflesso su opere ceramiche, le stesse che possono testimoniarci delle significative novità tecniche e formali introdotte dagli originali.
Tra i rarissimi frammenti originali rimastici, particolare rilievo assume una tavoletta dipinta rappresentante una processione votiva, è la meglio conservata di quattro quadri (pìnakes), rivenuti insieme ad altri oggetti di culto, all’interno di una caverna, forse sede di un santuario rupestre dedicato alle Ninfe, presso Pitsà, una località posta tra Corinto e Sicione, da taluni identificata con l’antica Chelydorèa.
La preziosa pittura, oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Atene, risale probabilmente al 540-530 a.C. ed è realizzato su supporto di legno preparato con un fondo liscio a base di gesso o stucco bianchi.
La processione si snoda da sinistra verso destra, dove è ben visibile un altare con sotto acceso il fuoco per il sacrificio. Tra i sette offerenti spiccano, a sinistra, due donne dalla ricca acconciatura, che le scritte identificano come Euthydike ed Euquòlis, con in mano dei rami, forse d’alloro. Seguono due giovinetti che suonano rispettivamente il flauto e la lira, un ragazzo che conduce una pecora e un altro personaggio dai capelli corti (verosimilmente una sacerdotessa) che reca offerte sul capo e versa un’offerta agli dei sull’altare. La grafia del disegno è estremamente minuta e i colori, dati per campiture omogenee, si limitano al turchese e al rosso delle vesti, al rosato degli incarnati maschili e al marrone del terreno e dei contorni.
Per farci un’idea della pittura greca, comunque, occorre spostare l’attenzione sui manufatti di terracotta dipinta, dei quali, fortunatamente, ci sono invece pervenuti numerosi e significativi esempi. Si tratta principalmente di anfore, vasi, coppe, piatti e crateri che gli abili ceramisti del tempo producevano in grandissima quantità e che gli artigiani specializzati provvedevano a decorare. Contrariamente alla pittura vascolare del Periodo di Formazione che, come si ricorderà, era del tipo esclusivamente geometrico, quella sviluppatasi fra il VII e VI secolo a.C. si caratterizza per la forte preponderanza di temi figurativi. Anche in questo campo, dunque, troviamo un’ulteriore conferma della tendenza greca a privilegiare la rappresentazione della figura umana piuttosto che qualsiasi altro soggetto decorativo, In relazione alle tecniche impiegate per la decorazione ceramica siamo soliti individuare due stili principali di pittura detti rispettivamente a “figure nere”, a partire dal VI secolo a.C., e a “figure rosse”, dagli ultimi decenni del VI secolo a.C. in poi.
La pittura a figure nere è realizzata impiegando una particolare vernice nera che, una volta cotta, diventa lucida e si staglia con grande contrasto sullo sfondo del vaso, che conserva il caratteristico colore rosso-brunastro della terracotta naturale.
I particolari e le decorazioni sono ottenuti, prima della cottura, graffendo con un sottile stilo, in legno, osso o metallo, la vernice nera, in modo da scoprire in negativo il colore del fondo sottostante. Il maggior artista della tecnica a figure nere di cui ci siamo giunte notizie è il vasaio attico Exechìas, attivo intorno alla seconda metà del VI secolo a.C., che ha firmato, tra l’altro, la celeberrima anfora a profilo continuo con Achille e Aiace che giocano ai dadi.
I due eroi omerici vengono qui rappresentati mentre, seduti uno di fronte all’altro, stanno tirando i dadi o, più probabilmente, muovendo delle pedine. Essi, ancora in abbigliamento da guerra, hanno appena appoggiato a terra i propri scudi e Achille, il personaggio di sinistra, indossa ancora l’elmo piumato da combattimento. Nonostante si stiano concedendo un momento di svago tra una battaglia e l’altra, il loro atteggiamento appare intento e concentrato e le loro figure, rappresentate perfettamente di profilo, assumono anche nel gioco un aspetto solenne e austero.
La tecnica realizzativa è estremamente raffinata e porta Exechias a decorare in mofo fantasioso le vesti e i contorni delle membra sono ottenuti graffendo minutamente la superficie nera delle figure. Tutta la scena risulta perfettamente equilibrata e i due personaggi si adattano così bene alla forma panciuta dell’anfora che sembrano quasi amplificarla e modellarvisi sopra. Le lance poste in diagonale e gli scudi visti di tre quarti, infatti, sono collocati in modo da proseguire idealmente gli attacchi delle anse, creando così un’incredibile unità tra i soggetti rappresentati e l’anfora, supporto di tale importanza. Questa armoniosa e ben studiata corrispondenza tra decorazione e oggetto decorato, comunque, si precisa ulteriormente con l’introduzione della tecnica a figure rosse. Essa consiste, inversamente alla prima, nel dipingere di nero l’intero sfondo del caso lasciando le figure e le decorazioni di color rosso-brunastro della terracotta. La figura rossa, poi, si presta a essere maggiormente dettagliata, in quanto i lineamenti del volto, i contorni delle membra e i particolari dei panneggi non sono di graffiti, bensì dipinti con sottilissime linee nere e rosse, consentendo, in tal modo suggestivi effetti di colore e disegni di straordinaria accuratezza. Tra i molti ceramisti attivi in Attica tra il VI e il V secolo a.C., è importante ricordare soprattutto Euphònios, autore, tra l’altro, del celebre cratere, oggi al Museo di Louvre, con la Lotta di Eracle e Atèo.
In esso, non diversamente da quanto avveniva nelle metope fidiache del Partenone, è rappresentata l’eterna contrapposizione tra l’uomo (Eracle), sicuro di sé grazie alla propria razionalità, e il mostro (il gigante Anteo), la cui forza selvaggia non è mai guidata dall’intelligenza.
Proprio in virtù, di questo, Eracle, che nel cratere viene rappresentato con barba e capigliatura scure, composto e consapevole anche nello sforzo del combattimento, riesce a sopraffare Anteo. Il gigante, infatti, era imbattibile fino a quando poggiava i piedi sulla terra ed Eracle lo vince solo grazie all’astuzia di sollevarlo dal suolo, sottraendolo in tal modo alla protezione della madre.
I due combattenti impegnati nel mortale corpo a corpo sono nudi, a meno di una fascia che cinge loro la testa, secondo l’uso dei lottatori. Eracle è proteso verso l’avversario e lo blocca con una potente presa sotto la spalla destra, nonostante lo sforzo sovrumano, che gli gonfia i muscoli della cosce e dei polpacci, il suo volto perfettamente di profilo ci appare composto e sereno. Al contrario, Anteo viene rappresentato un un modo scomposto, quasi a sottolineare sismologicamente l’irrazionale violenza del personaggio. Infatti, mentre il possente torso del gigante è visto di fronte, la gamba sinistra, le braccia e il volto sono fi profilo. Ciò conferisce alla figura un senso di dolorosa disarticolazione, drammaticamente sottolineata sia dalla mano destra, che ricade al suolo Quasi inanimata, sial dal volto, percorso da una smorfia che, per lo sforzo, gli fa anche dischiudere la bocca. Nel complesso la composizione, armoniosamente inserita nella fascia tra le anse e il bordo, risulta essere perfettamente equilibrata, Ciò è dovuto oltre che alla meticolosità del disegno, anche al bilanciamento degli spazi pieni (rossi) e vuoti (neri), il che contribuisce a dare al manufatto quella leggerezza e quella raffinatezza che sono poi comuni a tutta la ceramografia greca del periodo.
M° Monica Isabella Bonaventura
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