L’ ETA’ ARCAICA, 2° parte: Il cammino verso l’equilibrio formale kouroi e korai

…riprendo l’ultima frase dalla 1° parte pubblicata precedentemente: “Due statue, nonostante che il loro volume massiccio possa far credere il contrario, sono state scolpite per essere osservate frontalmente, secondo una tradizione scultorea ancora ricollegabile, all’arte egizia; viste di lato, infatti, esse perdono gran parte del loro vigore e della loro espressività”.

Va aggiunto però che già da questo periodo gli artisti greci cercano di dare l’idea del bello in base alla corrispondenza simmetrica fra le varie parti del corpo, secondo degli schemi geometrici assai rigidi, che non hanno più alcun riferimento con la realtà del corpo umano. A questo proposito, infatti, è possibile individuare delle teoriche rette orizzontali, assi di simmetria, attorno alle quali certe parti del corpo sono messe in evidenza come se riflesse in uno specchio.

Si possono notare da questa immagine come le doppie curve dei muscoli pettorali corrispondano le opposte curce delle clavicole, allo stesso modo, alle curve che delimitano inferiormente il torace, corrisponde l’uguale e opposta curva dell’attacco delle gambe al busto e dell’inguine. Le curve che individuao le piegature delle braccia, infine, sono richiamate dagli architetti scolpito al di sopra delle rotule.

Se nella scultura dorica prevale la contrapposizione violenta delle masse, capo, torace e arti sembrano essere scolpiti ognuno per proprio conto, quasi fossero elementi tra loro indipendenti e autonomamente significanti, in quella più alta si tenta di armonizzare meglio tra loro le varie membra, al fine di conseguire un maggior equilibrio di volumi e una più razionale unitarietà delle singole parti. Uno dei più noti e significativi esempi di scultura attica è costituito dal cosidetto Moschòphoros, (portatore di vitello) risalente virca al 570-560 a.C. Il Moschòphoros è perciò un kouros che porta un vitello sulle spalle reggendolo per le zampe e rappresenta forse una persona che che porta al tempio la propria offerta o, secondo altre interpretazioni, di ritirare il premio conquistato in una gara.

In questo modo le braccia dell’uomo e le zampe dell’animale si incrociano generando una specie di grande X, che conferisce all’insieme un senso di simmetria e di austera monumentalità.

Contrariamente ai Kouroi più arcaici, questo non è completamente nudo, esso infatti, indossa la chlaìna, il tipico mantelo che i greci portavano sopra il chitone, la corta tunica a forma di sacco senz fondo che costituiva il loro principale capo di abbigliamento.  La chlaìna, aderendo al corpo del kouros, ne evidenzia ulteriormente la vigorosa muscolatura, iniziando una tradizione che, in epoca classica, porterà al cosiddetto panneggio bagnato, grazie al quale le fattezze anatomiche, appena velate dai vestiti aderentissimi e quasi trasparenti, saranno messe in maggior risalto di quanto non sarebbero in caso di nudità completa.

La testa del Moschòphoros, di forma ovaidale è incorniciata superiormente da un’acconciatura di capelli ondulati che si raccolgono in trecce ricalanti sulle clavicole e, inferiormente, da una barbetta liscia a frangia, priva di baffi, secondo la moda arcaica. Nonostante che la statua sia realizzata in marmo dell’Imetto (catena montuosa dove si ricavava il marmo), un materiale scultoreo assai prgiato, essa presenta evidenti tracce di policromia, come per i templi, infatti, anche le statue arcaiche erano originariamente dipinte, il che doveva senza dubbio conferire loro un aspetto e un significato molto diversi da quelli che oggi siamo in grado di immaginarci, fortemente legati alla loro funzione di statue votive da offrire agli dei o di rappresentazioni di defunti.

La scultura ionica, infine, manifesta inconfondibili influssi orientali e si presenta, nel complesso, più proporzionata di quella dorica e meno schematica di quella attica, anche se le tre correnti hanno poi spesso finito per interagire e mescolarsi fra di loro.

La statua oggi, conservata al Museo Nazionale di Atene, è giunta fino a noi pressochè integra, anche se il marmo di Milo, di cui è costituita ha sofferto di una forte corrosione superficiale, che ne ha un po’ consumato i contorni.

Il kouros, completamente nudo, ha la consueta posa stante della tradisione dorica, ma se lo si confronta al Kleobi e Bitone di Polimede (vedi immagine nella prima parte), balzano immediatamente agli occhi alcune differense sostanziali che ce ne denunciano l’inconfondibile prevenienza ionica.

Il capo è infatti più piccolo rispetto a quello dei kouroi dorici e le membra, pur non potendosi definire realistiche, mostrano comunque un modellato più morbido e meno squadrato.

Tali accorgienti conferiscono all’intera figura un’armonia che ce la fa apparire più snella e aggrazziata. Anche il kouros di Milo è stato scolpito, come quasi tutte le statue di epoca arcaica, immaginandone una visione di tipo esclusivamente frontale.

Il volto è privo di barba e i capelli corti sulla fronte, sono acconciati in modo da formare lunghe tre che ricadono dietro le spalle e le labbra, infine, appaiono dischiuse nel consueto, emigmatico sorriso. Tra le tante korai arcaiche giunte fino a noi ve n’è una che riassume nel modo migliore le carattestistiche ripologie delle statue femmnili di tradizione ionica, si tratta della cosidetta Hera di Samo, che gli studi più recenti datano intorno al 570 a.C..

L’imponente kore, rappresenta la stessa dea Hera o una fanciulla che reca offerte al tempio.

Sul plinto di base vi è inciso il nome Cheràmyes: si tratta probabilmente di colui che l’aveva offerta alla dea a fini propiziatori o di ringraziamento, la limpida forma geometrica di questa kore rimanda ai cosiddetti xòana, sorta di antichissimi idoli pre-ellenici ricavati direttamente da un tronco d’albero. La statua, infatti, è sostanzialmente cilindrica e rappresenta un soggetto femminile stante, con i piedi nudi uniti e il braccio destro rigifamente steso lungo il fianco, con la mano, serrata convensionalmente a pugno, che traspare attraverso il sottile tessuto della veste.

Il braccio sinistro, invece, oggi parzialmente perduto, doveva essere rappresentato, secondo la tradizione, nell’atto di sorreggere un dono, forse un melagrana, simbolo di abbondanza e prosperità. La verticale regolarità delle sottilissime pieghettature del chitone conferisce alla figura uno slancio che la diagonalità del panneggio mitiga senza essere interrotto, creando un’equilibrata contrapposizione geometrica di masse.

Nel suo complesso l’Hera di Samo, richiama alla mente anche la morbida modulazione di luci e ombre nelle scanalature a spigolo arrotolato delle colonne ioniche.

Sia in architettura sia in scultura, infatti, gli artisti ionici ricercano quella snelleza e quell’equilibrio ideali che, al di là di qualsiasi intento realistico, che diano alle loro opere proporzioni geometricamente sempre più armoniche e perfette.

 

M° Monica Isabella Bonaventura

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